Quando nel 2017 Bryan Fuller portò sul piccolo schermo l'adattamento di American Gods, graphic novel esiziale per chi ama quel mondo lì, l'unica paura era che Fuller si sarebbe potuto perdere in orpelli visivi sacrificando il nocciolo della filosofia che animava American Gods.
La prima stagione fu di una potenza tale che qualsiasi vezzo artistico dell'autore di Hannibal (la serie) poteva essere perdonato, o addirittura esaltato.
Le belle cose finiscono prima o poi.
Il connubio fra American Gods e Fuller finì molto prima di quanto avrebbe dovuto.
Diverbi e divergenze artistiche con la produzione Amazon Prime Video portarono ad una clamorosa separazione.
American Gods perse il suo regista, il suo creatore e di fatto, quel giorno, perse la sua anima.
La seconda stagione ne uscì devastata, priva di quella potenza visiva straordinaria che Fuller aveva saputo confezionare e di quella profondità che era riuscita emergere tra un estrosità e l'altra.
La terza stagione aveva il compito di rilanciare il "brand" e di accelerare una guerra divina che da troppo viene paventata senza, mai, essere scatenata.
A ridosso del giro di boa, come è la situazione?
Il paziente è vivo ma in coma, ferito ma non morto.
La si può leggere in entrambi i modi quando si parla di American Gods.
E' sempre un piacere ammirarla e apprezzarne il valore tecnico ma è altrettanto straziante vederla perdersi in sè stessa, crogiolarsi nelle sue stesse lacrime, arrovellarsi nella sua stessa storia, scivolare in un labirinto in eterna discesa dove oltre a non trovare mai l'uscita non trova neppure una risalita.
Viceversa, American Gods pare debole, ferita, perduta ma riesce a farsi amare comunque, grazie a dei personaggi a cui non puoi che voler bene, a delle trovate che non lasciano indifferenti, a delle sequenze a cui rivolgere un WTF sentito.
La terza stagione accentua tutto questo lasciando però molto molto più perplessi che nella seconda, dove una parvenza di orizzontalità e sensatezza pareva esserci ancora.
Nel terzo capitolo, invece, sembra deragliare tutto molto mestamente.
Uno scollamento totale nella storia, personaggi alla deriva, allontanamento dalle radici, carne al fuoco in abbondanza, rimescolamenti generali ed un senso di spaesamento che colpirebbe anche il più navigato spettatore.
L'inizio dell'annata è un vero e proprio disastro.
Ci sono delle storyline che colpiscono per la loro vacuità e alle quali non puoi che guardare con diffidenza, complice anche la ritrosia a imbarcarti in situazione viste già altre volte in passato e conclusesi con un nulla di fatto.
La lotta tra vecchie e nuove divinità è qualcosa di estremamente complesso e interessante e American Gods conferma anche in questa stagione di saperla calare nella realtà, nella contemporaneità.
Il problema è che non sembra riuscire a raccontarla meglio delle scorse stagioni.
Perchè, dunque, uno spettatore scettico dovrebbe smaniare per il prossimo episodio, non dormire la notte per unire puntini inesistenti e molto vacui?
Non c'è quell'ossessione che accompagnava la prima stagione di American Gods, manca la grinta o come direbbe Gennaro Gattuso: "manca il veleno".
American Gods sta diventando come tante altre serie tv di altissimo livello: un cagnolino bellissimo e amichevole ma oramai vecchio e stanco che lasci ancora nel tuo giardino per pietà, speranza e per onorarne la memoria in nome dei bei tempi che furono.
American Gods è troppo bello per poter essere abbandonato, troppo sontuoso a livello visivo per essere snobbato, con troppi temi universali e di enorme interesse per essere accantonato.
E' però un prodotto imperfetto, che richiede tantissime energie e tempo per essere capito, assimilato a dovere, come meriterebbe.
E la domanda, come diceva Antonio Lubrano, nasce spontanea.
Ne vale la pena proseguire?
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