Nell'anno della morte di Kobe Bryant (che qui avevo omaggiato attraverso il ricordo del suo "Dear Basketball"), Netflix pesca il jolly, proponendo con una puntualità clamorosa una docuserie sulla dinastia più celebre della NBA moderna.
The Last Dance è un documentario in 10 episodi che racconta il mito dei Chicago Bulls, attraverso immagini e interviste delle sue leggende.
La docuserie è stata capace di raccontare, in maniera stratificata singoli eventi, singoli gruppi, singole persone riuscendo ad esaltarne la loro enorme complessità, scavando contestualmente all'interno della vastità del quadro generale nella quale tutto veniva incorniciato.
Protagonista assoluto, manco a dirlo, è Michael Jordan.
Il giocatore più devastante della storia (Lebron James permettendo) e sicuramente più conosciuto, è voce narrante in vari momenti della serie ma è soprattutto il catalizzatore di ogni evento che scorre solo attraverso di lui e che senza di lui non sarebbe, semplicemente, mai esistito.
La leggenda dei Chicago Bulls è oggi realtà perchè Michael Jordan e Chicago si sono incontrati e lo hanno fatto esattamente in quegli anni ed esattamente in quel modo cosi unico, a tratti burrascoso, a volte morboso ma catarticamente perfetto.
Ricorda la simbiosi con la quale Diego Armando Maradona incontrò Napoli per 7 anni dal 1984 al 1991 e, contestualmente, Napoli incontrò Diego Armando Maradona.
E' il parallelo di 2 storie perfette che nessuna penna avrebbe mai saputo scrivere meglio, con tanto ardore, tanti colpi di scena, incredibili miracoli, saliscendi inattesi e continui.
The Last Dance riesce ad andare oltre il mito e dentro la leggenda, portandoci negli spogliatoi, sull'aereo, sull'autobus, nelle stanze abitate da Michael Jordan, Scottie Pippen, Dennis Rodman, Steve Kerr, Phil Jackson, Bill Paxton.
Erano gli anni del dream team e delle sfide immortali, gli anni dei cagnacci di Detroit e dei Boston di Larry Bird, gli anni di Magic Johnson e della coppia Stockton - Malone.
Tutti offuscati da MJ o forse illuminati dalla sua luce riflessa.
The Last Dance ha avuto la capacità di accrescere il significato già enorme delle gesta di His Airness e compagni, di amplificare l'impatto che quei risultati hanno avuto sulla NBA dei nostri giorni, di suggerire quanto oltre alla dimensione sportiva siano andati quei momenti.
Non esiste uomo sulla terra che non conosca il nome di Michael Jordan. Il primo sportivo, insieme proprio a Maradona e forse Muhammed Alì, il cui volto, le cui azioni, sono state trasmesse in mondo visione, raggiungendo non più milioni ma miliardi di persone.
Persone che avrebbero sognato le Air Jordan per tutta la vita, persone che si sarebbero sintonizzate ad ogni latitudine, a qualsiasi ora del giorno e della notte per assistere ad una partita di playoff dei Bulls di Michael Jordan.
In molti hanno criticato il Jordan-centrismo della serie.
E' innegabile che il minutaggio riservato ad MJ sia stato da solo pari a quello riservato a tutti gli altri compagni di viaggio messi insieme.
Giusto o sbagliato che sia parliamo di una delle figure più ingombranti della storia dell'ultimo secolo, di uno degli sportivi più vincenti di sempre, di uno degli uomini più determinati della recente storia umana, di uni dei talenti più cristallini che la nostra memoria possa ricordare.
Se è vero che senza la tenacia e l'istrionismo di Dennis Rodman, senza l'atletismo e l'intelligenza cestistica di Scottie Pippen, senza la calma e la saggezza di Phil Jackson, senza la visionarietà e l'astuzia di Jerry Krause, la dinastia Bulls non sarebbe forse mai esistita, è vero oltre ogni ragionevole dubbio che Pippen, Rodman, Jackson e Krause sarebbero stati degli ottimi giocatori/allenatori/dirigenti presto dimenticati da tutti se il loro destino non avesse incrociato quello di His Airness.
Criticare la scelta di Netflix di dare larghissimo spazio a Michael Jordan vuol dire non ammettere quello che MJ è stato, significa non conoscere la storia di quegli anni, di quella franchigia, dell'intera NBA.
NBA che mai più sarebbe stata la stessa, complice il genio di David Stern che in quegli anni la rese un fenomeno globale e complice la mirabolante e cinematografica storia, lunga quasi 20 anni, nella quale Michael Jordan dipinse il suo personale Van Gogh.
Ma The Last Dance è stata l'evento televisivo dell'anno per molti altri motivi. Sarebbe stato, infatti, troppo semplice e troppo semplicistico mettere insieme 10 episodi composti da belle giocate, qualche intervista, una bella musichetta motivazionale in sottofondo, uno storytelling tutto sommato lineare degli eventi. La docuserie Netflix fortunatamente rifugge tutto ciò e reinventa il documentario sportivo affermandosi come un game changer assoluto.
Esisterà sempre un prima e un dopo The Last Dance, per chiunque vorrà raccontare lo sport, personaggi sportivi, squadre, competizioni cosi come per le serie tv esisterà sempre un prima ed un dopo Breaking Bad, cosi come per le comedy esisterà sempre un prima e un dopo Friends, cosi come per il genere supereroistico esisterà sempre un prima e un dopo Watchmen.
Il perchè è presto detto.
The Last Dance riesce, innanzitutto, a convincere tutti, appassionati e neofiti. Sembra un traguardo minimale ma è l'attestato più importante che una storia sportiva filtrata con le lenti di uno storyteller documentaristico possa raggiungere.
Farsi amare da chi non ha mai visto una partita di NBA, o addirittura mai una partita di basket, in vita sua è tanta roba. Farlo senza raccontare frottole, senza inventare pezzi di storia, senza indugiare sul gossip, senza ricorrere a facili sensazionalismi è un atto di pura arte.
Conquistare i neofiti non è semplice ma una volta esserci riusciti è semiimpossibile tenere insieme una parte di pubblico "ignorante" in materia con chi invece, magari, è un appassionato totale della NBA, di Michael Jordan, dei Bulls, del Basket, dello sport.
I primi riesci a conquistarli rendendo semplice il racconto, rendendolo fruibile, comprensibile ma avvincente allo stesso tempo.
I secondi devi coccolarli con qualche aneddoto, portarli dalla tua parte con dei tecnicismi, stupirli con dei retroscena che non conoscevano.
Coniugare le 2 cose è un'impresa titanica. The Last Dance ci dimostra essere non impossibile.
Chiunque abbia visto la docuserie si sarà imbattuto con entusiasti neofiti che grazie al prodotto Netflix hanno iniziato, magari, ad approfondire il basket,la NBA o semplicemente alcuni degli aneddoti legati a quel periodo e al tempo stesso avranno chiacchierato con i propri amici patiti di NBA che hanno trovato in The Last Dance un vero e proprio tempio dove tornare a deporre corone e fiori di gratitudine e ammirare i propri idoli nell'estasi più totali.
Ma come ha fatto The Last Dance a trovare un simile elisir?
La risposta sta nella capacità di destrutturare un racconto arcinoto, spacchettandolo in 10 puntate, privandolo della propria linearità temporale, arricchendolo con uno storytelling molto personale e da un taglio più intimo.
Le interviste ai vari protagonisti di quel leggendario viaggio consentono proprio questo, consentono di sentire come vicine quelle sfide e di conoscerle nella loro dimensione più intima.
L'aggressività e la concentrazione ossessiva di Michael Jordan. Gli eccessi di Dennis Rodman, necessari quanto anticonvenzionali. La disponibilità e la frustrazione di Scottie Pippen. La centralità e la flessibilità di Phil Jackson. La beatitudine e la gratitudine dei "comprimari" alla Paxton o alla Kerr nell'essere parte di quella magia.
Intorno a queste figure è nato il ciclo vincente dei Bulls che da più parti ha trovato nemici interni ed esterni pronti a buttare giù la corazzata di Phil Jackson dalla torre.
Quello che raccontata in The Last Dance sembra una storia inventata ed è invece la dimostrazione di come a volte la realtà superi davvero la fantasia.
E qui ritorna il mito di Michael Jordan senza il quale nulla sarebbe mai esistito a livello sportivo e senza il quale The Last Dance non sarebbe potuto essere cosi avvincente e straordinario.
Il ragazzo da North Carolina è uno di quelli che hanno bruciato le tappe, entrando nella NBA giovanissimo e riuscendo in un paio d'anni ad affermarsi come uno dei migliori giocatori del campionato più duro e bello del basket mondiale.
L'ossessività, la disciplina che MJ metteva in ogni allenamento gli hanno permesso di perfezionare quei movimenti che lo hanno reso celebre e di avere una carriera cosi longeva che, dopo 2 ritiri, lo ha portato a dire addio al basket con un'ennesima annata record a 40 anni suonati e dopo quasi 20 anni di carriera il 16 Aprile 2003.
Nel mezzo 2 ritiri, una parentesi nel baseball, un vizio controllato per il gioco d'azzardo, una passione incontrastata per il golf, contratti multimilionari, un rapporto speciale con il padre, la morte misteriosa e violenta del padre, i dissidi con la proprietà dei Bulls, le controversie con alcuni suoi compagni di squadra, le sfide sul campo con i suoi eterni rivali, gli All Star Game, la fragilità e la commozione, Space Jam ed il successo galattico.
La parabola di MJ ha sembrato non avere mai fine, trascinando con sè chiunque fosse intorno a condividerne il mito e a portarne con lui il peso bellissimo dell'immortalità.
Ecco perchè, viene quasi da ridere quando alcuni ex compagni di squadra o addetti ai lavori criticano il troppo spazio riservato Michael Jordan, quasi come se quella storia potesse avere senso senza lui, quasi come se non gli si potesse perdonare qualsiasi cosa.
Sono tantissimi i momenti topici, quelli che hanno fatto la storia del gioco e della cultura pop, dal tiro sulla sirena a Salt Lake City, i 63 punti nei playoff a soli 23 anni, il titolo nel giorno della festa del Papà a pochi mesi dalla scomparsa del suo pilastro morale, "The Shot" contro Cleveland.
Nessuno di quei momenti nasce per caso, nessuno di quei fotogrammi stampati indelebilmente nelle nostre menti arriva da solo senza il suo vissuto, il suo background unico ad almentarne il mito eterno.
E allora quella prestazione magica contro Stockton e Malone è preceduta da un avvelenamento alimentare perpretrato da tifosi Jazz attraverso la consegna di una maledetta pizza, quei tiri sono contornati di tutta la fame cestistica che ammantava ogni secondo della vita sul parquet e fuori di MJ, le prestazioni eccezionali di Dennis Rodman erano avvolte dalle sue follie, dai suoi viaggi flash a Las Vegas, i suoi amori pazzi e le sue eccentriche uscite televisive. In tutto questo vi era un saldo legame fra il coach e la squadra, fra Phil Jackson e Michael Jordan. Il maestro zen, il mito del maestro zen nacque lì, nella difficile gestione di un nucleo nuovo e talentuoso con tante differenze e divergenze, molti individualismi e l'uomo più ingombrante del pianeta al centro. Jackson riesce a cambiare la priorità di ognuno, mettere MJ sul proscenio, responsabilizzarlo, renderlo leader e convincere il resto del team che ogni piccola cosa fatta sul parquet, ogni goccia di sudore, ogni sacrificio sarebbe stato fondamentale per raggiungere il successo. Il bastone e la carota, la calma olimpica che gli è valsa quel soprannome, hanno fatto di Phil Jackson l'uomo giusto al post giusto, l'uomo che avrebbe saputo unire Kobe e Shaq prima e avrebbe convinto poi il Black Mamba ad essere uomo squadra e non uno splendido individualista.
Tutte queste anime cosi diverse si amalgamarono in maniera perfetta, creando un'alchimia che avrebbe fatto invidia ai libri di Paolo Coelho.
The Last Dance riesce a rappresentare efficacemente le individualità di ognuno, facendole sempre confluire nel "big picture" dei Bulls, come un fiume ha i suoi affluenti senza i quali non potrebbe esistere anche Chicago ebbe innumerevoli comprimari pronti a rifocillare e ingrandire il fiume a cui approda.
La pandemia, la morte di Kobe, il chiacchiericci sul duello Lebron James e Michael Jordan per lo scettro di best player all time, hanno favorito il successo della docuserie Netflix ma anche senza questi fattori esterni oggi staremmo parlando di uno dei prodotti più dirimenti del nuovo millennio.
E pare sia stato proprio il continuo vociare dei media, sulla possibilità che Lebron James possa affermarsi davvero come il più grande di sempre agli occhi della gente, a scatenare in MJ il desiderio di riaffermare agli occhi del mondo la propria superiorità, rispolverando quei filmati, quel lavoro chiuso in un cassetto e a cui mai aveva dato l'ok, per urlare nuovamente al mondo, a 25 anni dalle 3 parole più celebri della sua sconfinata e irripetibile carriera:
I'M Back!
Abbandono la canonica struttura che normalmente utilizzo per esprimere un giudizio in numeri sui vari elementi che compongono una serie e ritorno al caro vecchio voto complessivo per questa docuserie meravigliosa:
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