Il gioco di parole con cui ho introdotto e titolato questo post potrebbe essere una delle cose più imbarazzanti che io abbia scritto ma anche una riuscitissima sintesi di quello che Speravo de morì prima è stata capace di essere nei 6 episodi che hanno costituito la serie tv Sky Original incentrata sulla vita, o meglio sull'omonimo libro, di Francesco Totti.
Al termine della visione vi è la certezza di essere stati in compagnia di uno dei calciatori più iconici degli ultimi anni e forse di sempre e di essere riusciti a capirlo ed apprezzarlo ancora di più per ciò che è stato dentro e fuori dal campo.
La serie è riuscita a raccontarci l'essenza di Totti.
Alla fine della corsa, o del giro di campo d'onore, abbiamo realizzato che il capitano era ed è quello che tutti noi credevamo che fosse: un ragazzo, un uomo semplice e fatto di cose semplici.
Uno dei pregi della serie è stato proprio questo, non edulcorare o santificare o cambiare quello che Francesco Totti ha sempre dimostrato di essere.
Il rischio, in operazioni come questa, è di beatificare e di impreziosire oltre modo l'uomo dietro il personaggio.
Per nostra fortuna, la produzione Sky Original non cade in questo errore.
Totti, interpretato da un superbo Pietro Castellitto, è quello che appare, in un rarissimo caso di "l'apparenza non inganna".
In qualità di esseri normali e mortali quali siamo, non avremo mai la controprova del fatto che il numero 10 giallorosso sia effettivamente quello che la sua storia e questa serie raccontano. Magari frequentandolo scopriremmo lati del suo carattere che non immagineremmo, potremmo scorgere della cattiveria o della brutalità in lui ma per quanto ci è dato sapere dai racconti, dai ritagli di giornale, dalle interviste, dalle testimonianze e da questa produzione, Francesco Totti è un ragazzo semplice, che ha vissuto a pane e calcio fin da quando aveva pochi anni di età e nel calcio ha forgiato anche il suo essere uomo, marito, figlio e padre.
Speravo de morì prima, restituisce il parallelo fra il Totti calciatore e il Totti uomo, irrimediabilmente fusi in un tutt'uno per tutta la vita, fino a quel fatidico giorno in cui le sue scarpette, se pur malvolentieri, furono appese al chiodo.
Pietro Castellitto è stato surclassato di fischi per il suo non essere fisicamente uguale al "Pupone", come se per interpretare un personaggio realmente esistito bisognasse essere suoi sosia. In molti, fortunatamente, ne hanno elogiato la sua incredibile capacità ad "essere" Francesco Totti. Le sue movenze, il suo trascinare costantemente le parole, le incertezze lessicali, le insicurezze caratteriali, l'irrimediabile sguardo rivolto al pallone, la nostalgia dei tempi andati, il vuoto percepito nel lasciarsi dietro le spalle tutta quella vita, tutta quella passione. Tutto questo bagaglio emotivo, gestuale e mimico, ha permesso a Castellitto di essere un Totti più che credibile, molto oltre il concetto di "reale".
Grazie a Castellitto abbiamo vissuto appieno il dilemma esistenziale del capitano, un dilemma che da particolare diventa universale.
Basta astrarsi.
Basta giocare al gioco delle parti e dimenticare di essere altro, di essere qualcosa e ricordarsi di essere qualcuno.
In fondo, Francesco Totti è solo un ragazzo di talento che con grazie al suo talento e in connubio con la sua passione, ha avuto la fortuna di guadagnare soldi e divenire famoso grazie a quello per cui era nato e a quello per cui avrebbe dato la vita. Un pò come capita per molti attori, Francesco Totti ha guadagnato milioni e costruito un impero facendo qualcosa che avrebbe fatto comunque, magari anche gratuitamente.
E' impensabile che una persona cosi possa essere disinvolta e felice di fronte alla prospettiva di un'irrimediabile al calcio.
Se allarghiamo il campo, e riprendiamo quanto accennato poco fa, la crisi che il protagonista affronta è la crisi che prima o poi ognuno di noi si troverà affrontare nel mezzo del cammin di nostra vita.
Per qualcuno è la fine della vita da single e l'inizio di quella da adulto responsabile e diligente, per altri è quel campanello d'allarme al primo accenno di scricchiolio di un ginocchio, per altri la realizzazione che da quel momento in poi una partita di calcetto o una corsetta sarebbero un everest da scalare per il proprio fisico, per altri ancora la conclusione di sogni giovanili e cosi via.
Da questo punto di vista la serie ci restituisce tanto su cui riflettere ed immedesimarci.
Il Totti uomo si fonde con il Totti calciatore e dopo aver negato la possibilità di un addio finisce per abbracciarlo, malvolentieri e con la malinconia e la nostalgia nel cuore di chi ha amato quello sport e quella maglia più di ogni altra cosa al mondo.
Ed il mondo, di rimando, restituisce a Francesco Totti un tributo sentito e a tratti folle (basti ricordare le scene relative alla coppia di novelli sposi e al sempre benvenuto Corrado Guzzanti). La suburbia romana e l'elitè capitolina insieme nell'omaggio al suo figlio prediletto e ottavo re della città di Romolo e Remo. Il popolino e i grandi attori della scuola romana, il burino e il politico, l'operaio e l'imprenditore. Tutti i tasselli del mosaico sociale della capitale si abbracciano idealmente per decretare l'ultimo saluto al capitano, quasi come fosse in atto un funerale di stato che sancisca l'addio alla vita da calciatore dell'ottavo re di Roma.
In questo ipotetico e simbolico funerale, Francesco Totti, il calciatore, sarebbe il defunto e lui assiste alla sua stessa cerimonia funebre con la paura di chi non sa cosa possa esserci dopo quel momento, di chi ha paura di guardare oltre la collina, di chi cammina con passo incerto nelle foreste vietnamite lungo il delta del Mekong.
Non ha idea di come e quando ne uscirà fuori, sa solo che dietro di sè lascerà l'unica cosa capace di identificarlo e capace di smuovergli qualcosa dentro.
Il futuro?
Un punto interrogativo.
Speravo de mori' prima è però, soprattutto, una serie di quelle che riescono a mettere di buon umore e che ti invogliano a prenderti un'oretta di riposo per sederti sul divano, magari con la famiglia o con gli amici, e trascorrere un pò di tempo in compagnia dei propri cari e della serie.
Stupirsi di quanto Gianmarco Tognazzi sia identico a Luciano Spalletti, divertirsi con la bravissima Monica Guerritore e le sue scenate da mamma apprensiva, giocare al gioco del "è lui o non è lui" con Antonio Cassano, emozionarsi di fronte alle immagini delle gesta di Totti, sbalordirsi quando sul piccolo schermo scorrono le gesta calcistiche di Roberto Baggio, Alex Del Piero e Paolo Maldini, innamorarsi del calcio che fu, rivedersi in un Totti bambino, ridere ad ogni parola proferita da Castellitto, sognare un ferramenta gestito da Ricky Memphis, ammirare la bravura della Scarano nei panni di Ilary Blasi.
Speravo de morì prima ha avuto il pregio di rasserenarci senza chiederci di diventare deficienti. Non bisogna essere dei fenomeni per capire la serie ma, per fortuna, non bisogna neppure essere dei totali idioti. Se c'è un errore che spesso viene commesso nel commentare una serie di questo genere, ovvero simpatica, piaciona e che mai vuole prendersi sul serio (proprio come il suo protagonista), è quello di derubricarla a "serie per chi non ha mai visto Fellini o Scorsese" e quindi serie destinata ad un pubblico di gente distratta e priva di ogni mezzo intellettivo o critico per discriminare un Van Gogh da un ritratto fatto con 4 pastelli Giotto da vostra cugina di 8 anni.
Speravo de morì prima non è un Van Gogh, non potrebbe essere un Fellini, non sarà mai un Gilligan, ma non è neppure un film di depurati di Made In Sud o una commediola scialba di ex attori di Zelig o una biografia di un ex concorrente dell'Isola dei Famosi.
Speravo de morì prima si è costruita una sua dignità, e soprattutto una sua legittimità.
Non è un caso se la serie abbia riscosso un clamoroso successo di critica, prima che di pubblico.
In definitiva, non posso che confermare quanto avevo già espresso in occasione dell'anteprima dei 2 episodi, quando ebbi a dire che "Speravo de morì prima è una serie magicamente semplice".
Lo è stata anche nei restanti 4 episodi ed è stata in grado di aggiungere quel pizzico di magia sul finale quando da quel pullman che avrebbe trasportato il capitano allo Stadio Olimpico per l'ultima volta sarebbe sceso il vero Francesco Totti, in un passaggio di consegne tra lui ed il suo alter ego seriale. Una transizione simbolica dal sogno alla realtà, dalla bolla alla vita reale.
Il calciatore romano si presta, come ha sempre fatto, ad un gioco in cui lui è stato l'unico protagonista, dapprima come bambino talentuoso che sognava il proscenio calcistico, poi come simbolo di Roma e dell'Italia, da campione d'Italia prima e campione del mondo poi, ed infine, con la solita autoironia, autore di libri di barzellette ed autobiografie semiserie su quello che il calcio è stato per lui e che lui è stato per il calcio, in un rimando ideale con il sontuoso Dear Basketball di Kobe Bryant.
Il finale è tutto per lui, in un'alternanza di immagini tratte dalla carriera del Pupone e di immagini telefilmiche di un Totti che subentra a Castellitto per compiere l'ultimo giro di campo, per "perdere tempo quando il tempo è l'unica cosa che non ha più a disposizione".
Il tempo.
Il maledetto tempo che tutto porta via e che non si ferma mai.
A ben pensarci è stato lui il protagonista di questa divertente ed emozionante serie che Colapesce e Di Martino non stenterebbero a definire "leggerissima".
Comments