Avete mai incrociato sui vostri schermi The Good Wife?
Siete nostalgici di Alicia ed in general dei legal drama che hanno fatto la storia?
Dall'attualità e dal racconto della società contemporanea volete essere risucchiati nei vostri 45 minuti di pausa seriale?
Cercate una serie che sappia non solo narrare ma anche leggere i fatti che accadono intorno a noi?
E non solo, vorreste qualcosa che sappia precorrere i nostri strani e bui tempi?
C'è una serie che mette insieme tutte queste cose in maniera stupefacente.
Si tratta, che ve lo dico a fare, di The Good Fight, spinoff di The Good Wife.
Oggi vi parlo della da poco conclusa stagione 5, che come sempre ha sbalordito, per come e per cosa ve lo dirò fra poco, dopo questa foto coniugale di Kurt e Diane.
Cominciamo col dire che di The Good Fight mi fido talmente tanto da averci scritto già 2 pezzi.
Ve li ripropongo entrambi, vi basterà cliccare sui bottoncini neri per essere reindirizzati ai post (facile no?):
Nei 2 articoli precedenti avevo provato a persuadervi ma anche a mettervi in guardia.
The Good Fight, ancor più di The Good Wife, è un prodotto impegnato ed impegnativo che si nasconde dietro la leggerezza dei suoi straordinari personaggi per affondare il coltello nelle carni del sogno americano.
La quinta stagione, non esente da difetti e non di certo la migliore delle 5 andate in onda, non si risparmia, presentandoci il nuovo mostro americano, un mostro fatto in casa e destinato a proliferare ma soprattutto un mostro del quale, oltre a non aver paura, tendiamo e tenderemo a fidarci, financo abbracciandolo ed invocandolo.
Qualcuno, per scopi politici o personalistici, la chiamerà rivoluzione.
Altri, futuro.
Altri ancora, progresso.
Non è e non sarà altro che manipolazione delle masse.
Per presentare tale scenario, per conferire credibilità a questa distopica suggestione (di cui vi parlerò a breve) era necessario servirsi di un mago della recitazione, di un attore dalle spalle fortissime e dalla bravura ineccepibile.
La scelta è ricaduta su Mandy Patinkin, uno dei 2 eroi di Homeland (qui la recensione della serie tv spy di Showtime), e, a stagione terminata, scelta non poteva essere più felice.
Guardate che faccione rassicurante ha il buon Mandy nei panni del "giudice" Wackner, non trovate?
Da qui in poi qualche spoiler potreste beccarlo.
Wackner impersona un giudice che giudice non è. Non lo è sulla carta, non lo è nei fatti. Non ha studiato per esserlo, nessuno lo ha legittimato eppure Wackner, nel retro di una copisteria al centro di Chicago, decide di fondare il suo tribunale.
Quello che sembrava uno scherzo, ben presto diventerà qualcosa di cui la gente, il popolo tenderà a fidarsi e su cui molte persone inizieranno a contare.
E qui il primo intoccabile punto fermo di questa stagione.
Cos'è la giustizia oggi? Non è forse vero che essa sia diventata soprattutto una macchina burocratica farraginosa e stancante? Come biasimare chi, depresso dalle lungaggini amministrative, sceglie di rifugiarsi in un tribunale di quartiere? E come biasimare chi ha perso fede nella giustizia, quella fatta di avvocati richissimi e dei loro assistenti sfruttati, di giudici pomposi e politicamente schierati, di poliziotti violenti e prigioni sovraffollate, di codici e cavilli e di ricchi che scavalcano i poveri attraverso mezzi molto più potenti messi in campo per difendersi?
Wackner offre all'America, offre al popolo un'alternativa. Un tribunale fai da te nel quale tutti vengono ascoltati e vengono processati rapidamente, senza fronzoli e senza sofisticherie.
Pane al pane e vino al vino.
Quella che potrebbe anche essere una soluzione o quanto meno uno spunto di miglioramento per la macchina della giustizia diventerà ben presto una cosa seria. Anche l'idea più nobile, se cavalcata, diventerà un potenziale cancro, distorto dalla nobiltà iniziale e indirizzato, capziosamente, verso un utilizzo di massa atto a controllare la massa stessa e non a liberarla.
In questo senso questa stagione, iniziata con un "previously on" tratto dalla realtà vissuta nello spaventoso 2020 globale e ancor di più americano, è bravissima a chiudere un cerchio iniziato con l'assalto al campidoglio e conclusosi cosi come si è conclusa questa stagione.
Wackner è un uomo amabile e rispettabile, ricco di passione civica ed entusiasmo, giusto ed equo nel giudicare i suoi casi ma si rivelerà, inconsapevolmente una pedina.
E se c'è un messaggio che questa stagione riesce a trasferirci è proprio questa spaventosa sensazione di essere schiacciati dal mondo, manovrati dall'alto, imbeccati dal oscuri e invisibili burattinai anche quando siamo certi, certissimi di essere noi ad avere il comando.
E' l'effetto dell'iperconnessione social e della sensazione che essi trasferiscono nel farci sentire in grado di raccontare e raccontarci, commentare ogni cosa, sentirci importanti.
Non lo siamo, almeno non quanto crediamo di essere.
Wackner occupa e monopolizza tutta l'attenzione di questa stagione ma non mancano altre storyline e i consueti focus sui personaggi da Diane a Liz, da Julius ad una Marissa che gode di un minutaggio elevatissimo. Rispetto alle stagioni precedenti si ha, però, la sensazione che il resto sia molto più di contorno del solito, che il resto conti meno rispetto al grande tema della Giustizia che la serie mette al centro e carica sulle spalle possenti di Mandy Patinkin ed in parte focalizzandosi molto sui personaggi nuovi di Oscar Rivi e di Carmen Moyo.
Ai puristi, forse, questa scelta piacerà forse poco, riflettendosi in un depotenziamento parziale di Diane e quasi annichilendo Liz, totalmente sullo sfondo in questa stagione. Anche i temi "secondari" hanno poco spazio, cosi come i casi di giornata che sono sempre meno e sempre meno originali. Forse, il motivo sta nell'aver messo sul piatto un tema enorme ed enormemente originale, nel tentativo, come sempre, di leggere, raccontare e anticipare la realtà.
Anche quest'anno, pur senza brillare in maniera accecante, The Good Fight ci è riuscita, distinguendosi dalla massa e portando a scuola i tanti imitatori, riuscendo a farsi sentire, riuscendo ad essere unica, sempre.
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